A cura di: Pietro Roccaro (prof. di storia).
“Il socialismo di ieri continua nel socialismo di oggi”. Bettino Craxi
Poco prima dell’elezione uno dei capi-corrente, Giacomo Mancini, chiamò il demartiniano Giovanni Mosca e gli chiese di sondare le possibilità di Bettino Craxi, un giovane della corrente di Nenni, vicesegretario del partito proprio insieme a Mosca. Craxi non era conosciuto a livello nazionale e Mancini pensava fosse perfetto per traghettare brevemente la segreteria. Gli altri leader socialisti, convinti di poterlo rimuovere in pochi mesi, lo votarono e Craxi fu eletto segretario. Non andò proprio secondo le previsioni. Craxi avrebbe mantenuto il ruolo per i sedici anni successivi, arrivando nel frattempo a guidare uno dei governi più lunghi della storia repubblicana (1983-1987) prima degli scandali giudiziari, dell’essere costretto a lasciare l’Italia e della morte il 19 gennaio di venti quattro anni fa in terra straniera. Nel 1976 il Partito Socialista Italiano se
la passava piuttosto male. A giugno c’erano state le elezioni politiche, in cui aveva preso poco meno del 10 per cento, un risultato sotto le aspettative, e la guida del vecchio segretario Francesco De Martino era stata messa in discussione dai militanti e dai quadri intermedi. Secondo molti era ora di cambiare, e si decise quindi di convocare il Comitato centrale (l’organo collegiale del PSI) per il 15 luglio all’hotel Midas di Roma, sulla via Aurelia. Bisognava cercare una soluzione di transizione fuori dalla corrente maggioritaria di De Martino, ma era complicato: oltre ai demartiniani c’erano infatti i lombardiani, i manciniani e gli “autonomisti” del leader storico Pietro Nenni, tutte correnti con lo stesso peso all’interno del partito.
Benedetto Craxi nacque a Milano nel 1934, in pieno fascismo. La sua famiglia (il papà era siciliano del paese di S. Fratello in provincia di Messina) era ostile al regime — suo padre Vittorio si sarebbe poi candidato al Parlamento con il PSI — e all’inizio della guerra fu mandato in un collegio religioso in provincia di Como, sia per tenerlo lontano dal pericolo che per contenere il suo carattere turbolento: in almeno due occasioni, infatti, causò disordini insieme ad alcuni amici coetanei, una volta insultando un corteo di “balilla” (i giovani fascisti) e un’altra rompendo a sassate i vetri di una Casa del fascio, cioè la sede locale del partito fascista. Entrambi gli episodi causarono preoccupazioni in famiglia, perché avvennero prima della liberazione del 25 aprile 1945, in un periodo in cui gli strascichi di violenze portati dalla guerra erano ancora frequenti. Dopo essersi diplomato al liceo Carducci di Milano, che si trova ancora oggi vicino a piazzale Loreto, Craxi decise di iscriversi a giurisprudenza per seguire la strada del padre, che aveva uno studio legale a Milano da cui passarono molti illustri personaggi dell’antifascismo, tra cui il futuro presidente della Repubblica
Sandro Pertini. Nello stesso periodo si iscrisse al PSI, senza farne parola con suo padre. La famiglia voleva che diventasse avvocato, ma dopo aver dato parecchi esami decise infine di lasciare gli studi per dedicarsi completamente alla vita di partito.
Negli anni Cinquanta Craxi cominciò a frequentare gli ambienti culturali milanesi e si accorse che i comunisti erano molto più influenti e presenti, soprattutto grazie al contributo di Rossana Rossanda, che sarebbe poi diventata responsabile culturale del PCI e fondatrice del quotidiano Il Manifesto. Nel frattempo Craxi cominciò a collaborare con vari giornali dell’area socialista, tra cui l’Avanti!, e rimase colpito dall’organizzazione del partito messa in moto da Rodolfo Morandi, segretario del PSI a fine anni Quaranta. Grazie a lui il partito si espanse e diventò un vero partito di massa: aprirono diverse sezioni locali, soprattutto al Sud, e gli iscritti diventarono più di 700mila.
Come ha sottolineato lo storico Luigi Musella, autore di una delle più complete biografie su Craxi, l’insegnamento di Morandi rimase impresso nel giovane Craxi: l’idea secondo cui fosse necessario costruire un’identità politica autonoma, che si differenziasse dagli altri partiti e in particolare da quello comunista, sarebbe stata poi in effetti un tratto distintivo dell’azione di Craxi segretario.
Per tutti gli anni Sessanta Craxi ricoprì una serie di ruoli a livello locale, da assessore al comune di Milano a segretario provinciale del partito, poi nel 1968 fu eletto deputato, ma mantenne sempre uno stretto contatto con i compagni di partito milanesi, tra cui il cognato e futuro sindaco Paolo Pillitteri, formandosi una rete di collaboratori fidati prima a livello locale e poi nazionale. Nel 1970 divenne vicesegretario del partito con il compito di curare i rapporti internazionali, cosa che gli permise di aumentare le sue conoscenze anche all’estero. Nonostante questo, al momento dell’elezione al Midas del
1976, Craxi era poco conosciuto e sottovalutato: sull’Unità Mario Melloni – più noto con lo pseudonimo di Fortebraccio – lo definì “Nihil, il signor nessuno”, e anche sugli altri giornali dell’epoca se ne parlò come di un personaggio di rango minore.
Da segretario di partito, Craxi dovette affrontare almeno due grandi problemi, collegati fra loro: la perdita di rilevanza del PSI e la sua scarsa performance elettorale. La causa di questi due problemi era chiara ed evidente a tutti, e fu sintetizzata molto bene dal filosofo Norberto Bobbio durante un convegno: «Nel nostro paese un forte partito socialista c’è; ma non è il partito socialista». Il riferimento era evidentemente al Partito Comunista Italiano, il cui consenso era costantemente in crescita, al punto che si temeva che fosse sul punto di sorpassare la Democrazia Cristiana, mandando all’aria il precario equilibrio su cui si era retta la Repubblica nei trent’anni precedenti.
Craxi era socialista ma anti-comunista, e per questo era visto con favore anche dagli americani: era espressione di una sinistra di tipo europeo e lontana da Mosca, e provò a mettere in discussione l’egemonia del PCI nella sinistra italiana attraverso una serie di iniziative, tutte volte a ribadire l’autonomia socialista: innanzitutto si oppose con forza al cosiddetto “compromesso storico”, che stava avvicinando democristiani e comunisti e rischiava di estromettere i socialisti, e usò come base d’appoggio intellettuale la “strategia dell’alternativa”, cioè l’idea secondo cui la sinistra doveva alternarsi alla DC in una sorta di bipolarismo, e non farci un’alleanza; poi teorizzò il superamento del marxismo, in particolare attraverso un famoso saggio scritto sull’Espresso nel 1978 in cui, tra gli altri, veniva citato il filosofo francese Pierre Joseph Proudhon, che definiva il comunismo «una “assurdità antidiluviana”». Infine, l’attacco definitivo al PCI avvenne tramite il riavvicinamento con la DC a partire dal 1979.
Craxi si distanziò dal PCI persino durante i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro, nel 1978: fu l’unico a sostenere pubblicamente la necessità di aprire una trattativa con le Brigate Rosse.
L’attivismo e la capacità di Craxi di sparigliare le carte in una politica ingessata e immobile – la Democrazia Cristiana governava dalla fine della guerra, il Partito Comunista non poteva andare al governo – diede al Partito Socialista un ruolo centrale nonostante le sue dimensioni ridotte, e questo permise a Craxi, dopo il successo elettorale del 1983, di ottenere la presidenza del Consiglio alleandosi con la Democrazia Cristiana, diventando il primo socialista ad avere questo incarico. La coalizione che sosteneva il governo era formata dai cinque partiti maggiori esclusi i comunisti, e rimase poi famosa con il nome di “Pentapartito”.
Craxi interpretò la presidenza del Consiglio con un piglio nuovo e diverso rispetto al passato: durante il suo governo il numero di decreti aumentò considerevolmente, suscitando peraltro grandi polemiche. Se oggi è frequente che buona parte delle leggi provengano da proposte del governo, e che poi vengano trasformate in legge dal Parlamento, in quegli anni fu una novità. Craxi cercò anche di riformare le istituzioni, non riuscendo in questo suo progetto a causa delle forti resistenze incontrate tra gli stessi alleati di governo più conservatori e tra i banchi parlamentari dell’opposizione incarnata da quel PCI che considerava improponibile ogni modello di riforma istituzionale o, più semplicemente, non voleva sostenere una riforma che potesse avvantaggiare il loro “nemico” Craxi e i socialisti riformisti e progressisti; Craxi da presidente del consiglio chiese più volte di modificare le regole sul voto segreto per mettere al riparo la sua maggioranza dai cosiddetti “franchi tiratori” (modifica che arrivò soltanto nel 1988, quando Craxi non era più al governo). Il suo fu, per certi versi, un modello “presidenziale” che anticipò molto la tendenza dei decenni successivi, sia da parte del centrodestra che del centrosinistra. In
Craxi interpretò la presidenza del Consiglio con un piglio nuovo e diverso rispetto al passato: durante il suo governo il numero di decreti aumentò considerevolmente, suscitando peraltro grandi polemiche. Se oggi è frequente che buona parte delle leggi provengano da proposte del governo, e che poi vengano trasformate in legge dal Parlamento, in quegli anni fu una novità. Craxi cercò anche di riformare le istituzioni, non riuscendo in questo suo progetto a causa delle forti resistenze incontrate tra gli stessi alleati di governo più conservatori e tra i banchi parlamentari dell’opposizione incarnata da quel PCI che considerava improponibile ogni modello di riforma istituzionale o, più semplicemente, non voleva sostenere una riforma che potesse avvantaggiare il loro “nemico” Craxi e i socialisti riformisti e progressisti; Craxi da presidente del consiglio chiese più volte di modificare le regole sul voto segreto per mettere al riparo la sua maggioranza dai cosiddetti “franchi tiratori” (modifica che arrivò soltanto nel 1988, quando Craxi non era più al governo). Il suo fu, per certi versi, un modello “presidenziale” che anticipò molto la tendenza dei decenni successivi, sia da parte del centrodestra che del centrosinistra. In
politica estera Craxi confermò l’appartenenza al blocco occidentale e proseguì il tradizionale europeismo che aveva caratterizzato l’Italia fino a quel momento.
L’evento che però influenzò di più il giudizio sulla politica estera di Craxi, e uno dei più citati è la crisi di Sigonella. L’episodio avvenne il 10 ottobre 1985, a seguito del dirottamento di una nave da crociera italiana, la “Achille Lauro”, da parte di quattro militanti radicali palestinesi. Nel dirottamento fu ucciso e gettato in mare un turista americano di origine ebraica disabile, e per questo motivo il presidente Ronald Reagan decise di intervenire nonostante nel frattempo il governo italiano fosse riuscito a mediare con i dirottatori grazie all’intervento del leader palestinese Arafat. Mentre i quattro venivano trasportati su un Boeing egiziano, due aerei militari americani, modello C-141, si affiancarono al Boeing. Reagan a quel punto chiamò Craxi e gli chiese il permesso di atterrare all’aeroporto militare di Sigonella, in Sicilia. Subito dopo l’atterraggio un gruppo di Carabinieri circondò il Boeing, mentre dai C-141 scese un gruppo di soldati della Delta Force, una forza speciale dell’esercito americano, che circondò a sua volta i Carabinieri: i due schieramenti erano uno di fronte all’altro, in cerchio e armati.
Dopo un breve scambio tra i rispettivi vertici militari nessuno cedette, e allora Reagan telefonò di nuovo a Craxi annunciando di voler chiedere l’estradizione per i responsabili della morte del turista americano. Craxi rifiutò, spiegando che i reati erano stati commessi in acque internazionali e su una nave italiana, e perciò «dovevano essere configurati come atti criminosi perpetrati in territorio italiano». «Non volarono parole grosse, semmai parole ferme», avrebbe commentato tempo dopo Craxi in un’intervista al programma Mixer di Giovanni Minoli. Alla fine furono gli Stati Uniti a cedere: sia i quattro dirottatori che i due mediatori furono trasferiti a Roma, e la crisi rientrò.
La politica economica dei governi Craxi conseguì dei brillanti successi: uno di questi fu la lotta all’inflazione, uno dei problemi maggiori dell’economia italiana di quegli anni. Si riuscì a ottenere buoni risultati in parte grazie al decreto che tagliava la cosiddetta “scala mobile”, con cui si disinnescò la spirale dell’inflazione: la “scala mobile” era un sistema per cui gli stipendi erano indicizzati automaticamente all’aumento dei prezzi, cioè all’inflazione; in sostanza, quando i prezzi aumentavano, aumentavano anche i salari (il che portava però a un nuovo aumento dei prezzi, lasciando invariato il potere d’acquisto).
Dopo la caduta del suo secondo governo, nel 1987, Craxi non avrebbe più ricoperto incarichi istituzionali e si concentrò soprattutto a mantenere le posizioni di governo che il PSI si era guadagnato. Del resto, i suoi avversari erano molti: innanzitutto il segretario della DC Ciriaco De Mita, espressione della sinistra democristiana e da sempre ostile verso i socialisti e a un Craxi a Palazzo Chigi sin dal 1979, e poi una parte della stampa, in particolare La Repubblica di Eugenio Scalfari, sempre molto critico nei confronti di Craxi e dei suoi. Per arginare De Mita, Craxi adottò una tattica piuttosto efficace: si alleò con i suoi avversari interni, in particolare con Andreotti e Forlani, formando intorno al 1989 quello che fu definito dai giornali “il patto del CAF” (dalle loro iniziali). La fase discendente della lunga parabola politica di Craxi si consumò in pochi anni, nel biennio drammatico 1992-1993. Nel febbraio del 1992 venne arrestato Mario Chiesa, socialista e presidente della casa di cura Pio Albergo Trivulzio di Milano. Craxi lo definì incautamente un «mariuolo» qualsiasi, che non rappresentava il PSI milanese. Alle elezioni di aprile persero consensi tutti i partiti maggiori, compreso il Partito Democratico della Sinistra appena nato dallo scioglimento del PCI, mentre la Lega Lombarda prese quasi il 9 per cento. n tutto questo Craxi, coerentemente con il suo carattere, fu uno dei pochi a esporsi.
Alla Camera, durante la cerimonia di giuramento del governo Amato del 3 luglio 1992, pronunciò uno dei discorsi più visti e citati di quel periodo, denunciando praticamente tutto il Parlamento compreso sè stesso:
«E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Secondo la visione di Craxi, che da lì in avanti avrebbe ammesso i finanziamenti illeciti ma respinto le accuse di corruzione per arricchimento personale, il problema era politico e in quanto tale necessitava di una soluzione politica, non giudiziaria: la politica e la vita dei partiti – di quei partiti – costavano molto, e quei fondi venivano reperiti in metodi illeciti da tutti (Craxi accusò tra gli altri il Partito Comunista di aver ricevuto per decenni parte dei suoi fondi dall’Unione Sovietica, come ormai acclarato). Tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993 Craxi ricevette una serie di avvisi di garanzia. Il 30 aprile 1993 si consumò un episodio infame che gettò una cupa ombra sul clima di linciaggio e di populismo costruito ad hoc dai media, stiamo parlando dell’episodio del lancio delle monetine, quando sotto alla residenza romana di Craxi, l’hotel Raphael a un passo da piazza Navona, si radunò un gruppo di manifestanti piuttosto
agitati. Craxi uscì comunque dall’albergo per entrare in macchina, in qualche modo affrontandoli, e loro lanciarono oggetti e monete. Alcuni tenevano alta una banconota da mille lire e cantavano «Bettino vuoi pure queste?».
Nel 1993 Craxi fu costretto a dimettersi dalla segreteria del partito. Quello fu anche l’anno di inizio del processo più importante nell’ambito delle inchieste di “Mani Pulite”, cioè il processo Enimont, in cui l’unico imputato era Sergio Cusani, fondatore di una società finanziaria e accusato di aver fatto da intermediario nel versamento di una tangente da 150 miliardi di lire. In questo processo furono ascoltati quasi tutti i maggiori dirigenti politici dell’epoca come testimoni e imputati in reati connessi, tra cui Forlani, Craxi, Gianni De Michelis e il repubblicano Giorgio La Malfa. Anche in questa occasione, Craxi diede la sua testimonianza sicuro di sé, denunciando il ruolo dei partiti di opposizione (in particolare del principale partito di opposizione, il PCI) e il fatto che tutto il sistema politico era a conoscenza dei meccanismi corruttivi.
Nel 1994 Craxi non fu ricandidato e con l’inizio della nuova legislatura, il 15 aprile, cadde la sua immunità parlamentare. Già il 5 maggio uscì dall’Italia e cercò rifugio in
Francia, dal presidente socialista e amico François Mitterrand, che però rispose che non poteva garantirgli ospitalità. Una vera e propria contraddizione per colui che avendo coniato negli anni ’80 la “Dottrina Mitterand” e che aveva reso di fatto la Francia un porto sicuro per ex terroristi di sinistra extraparlamentare in fuga dalle autorità giudiziarie di mezzo mondo e che riparavano in terra francese appellandosi ai principi dei diritti civili ed umani. Per Bettino Craxi, ex presidente del consiglio, ex segretario del PSI ed ex collaboratore del segretario generale dell’ONU quei principi della fantomatica “Dottrina Mitterand” non erano applicabili. Andò allora in Tunisia, dove possedeva una casa e dove aveva un altro amico, il presidente Ben Ali, che gli garantì di non concedere mai l’estradizione all’Italia e che gli diede quell’ospitalità che il francese Mitterand non gli aveva concesso. Da Hammamet Craxi continuò a seguire e commentare il processo che andava avanti e in generale le vicende politiche italiane, scrivendo lettere aperte, dando interviste e convincendosi del fatto che i magistrati di “Mani Pulite” fossero mossi da qualcuno più grande di loro, tra cui gli Stati Uniti, ancora offesi da come aveva gestito la crisi di Sigonella. Mentre si trovava lì ricevette due condanne, confermate dalla Cassazione, per finanziamento illecito e corruzione. Negli anni passati in Tunisia, l’unico politico italiano che lo andò a trovare fu Cossiga, il 19 dicembre 1999, muovendosi su un aereo di linea e lasciando a Roma la sua scorta di ex presidente della Repubblica. Esattamente un mese dopo Craxi morì, a causa delle complicazioni del diabete di cui soffriva da anni e di un tumore. L’allora governo guidato da Massimo D’Alema offrì alla famiglia la possibilità di fare un funerale di Stato, ma la proposta venne rifiutata e ancora oggi Craxi è seppellito nel cimitero cattolico di Hammamet. Sulla lapide è scritto un epitaffio che sintetizza in poche parole la personalità ed il carattere di Craxi ma che è un monito a quanti si battono per le proprie libere convinzioni e che per questo sono oggetto di persecuzioni e di repressioni: “La Mia Libertà Equivale alla Mia Vita”.
Il mio Tributo a Bettino Craxi e da docente di storia un modesto tentativo di ricostruire e di ricerca su quegli anni drammatici, tragici e di morte con bombe e stragi da Palermo al continente, attacchi giudiziari ad Personam (Bettino Craxi), alla nostra lira con la svalutazione del 30% dopo la scellerata decisione del governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi di portare la nostra moneta dalla banda larga del sistema monetario europeo alla banda stretta. Strane cose accaddero in quel biennio e i partiti politici della seconda Repubblica hanno la grande responsabilità di non avere mai voluto una commissione di inchiesta per accertare quella “operazione verità” che Bettino Craxi chiedeva a gran voce e che è stato volutamente inascoltato, lasciato solo ed abbandonato.